L’affaire Sinclair Oil, corruzione e mazzette all’ombra dell’omicidio che ha segnato l’avvio della dittatura
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Fra i vari temi portati avanti dalle forze politiche di stampo populista e neofascista nell’Europa martoriata dalla crisi e dall’austerity imposta dalla Troika neoliberista, vi è quello della lotta a oltranza alla corruzione, cavallo di Troia per una contestazione radicale della democrazia, puntellando le proprie ragioni a un bastone costruito su un falso mito: quello secondo cui il fascismo avrebbe mantenuto salda la sovranità nazionale degli Stati in cui esso dominava, grazie all’onestà dei propri dirigenti politici. Secondo costoro, con la sconfitta delle forze militari dell’Asse, l’Europa, spartita fra Usa e Urss, divenne un burattino nelle mani di due sistemi (il bolscevismo e la democrazia plutocratica) dietro cui si celavano forze occulte come l’ebraismo e la massoneria. Sempre secondo costoro, i dittatori fascisti – dipinti come dei ‘padri della patria’ o come delle ‘sagge guide’ – erano personaggi incorruttibili che imponevano il loro ordine autoritario per il bene comune. Attenzione però, perché qui non i tratta di un’operazione revisionista portata avanti esclusivamente dalla destra radicale, ma anche da certi settori moderati dell’editoria e dell’editoria nostrana attraverso la diffusione di saggi storici, scritti da giornalisti, e quindi redatti con una sintassi molto più avvincente di certi mattoni accademici, caratterizzati dall’assenza o quasi delle note a piè di pagina e di una bibliografia. Mi riferisco ai libri di Giordano Bruno Guerri, Arrigo Petacco, Antonio Spinosa o ai truculenti romanzoni splatter alla Dario Argento, capaci di presentare il regime fascista in maniera edulcorata, come un autoritarismo alieno da ogni degenerazione totalitaria (una “defascistizzazione retroattiva del fascismo” [1]) e da ogni forma di corruzione. Naturalmente questo è falso. Il regime fascista, come ogni tipo di regime, compreso quello democratico, è stato soggetto a forme di corruzione simili in tutto e per tutto a quelle che hanno caratterizzato la successiva Prima Repubblica, e quella vigente. Solo che, vista l’assenza di libertà d’informazione ed eliminando – per non disturbare il manovratore di turno e far passare l’idea che si potesse dormire con la porta aperta – dai quotidiani la cronaca nera, facendola rispuntare solo quando il ‘mariuolo’ risultava nel Casellario politico centrale alla voce antifascista o sovversivo, tali notizie non potevano trapelare. Un caso eclatante di corruzione e di trasferimento di sovranità nazionale a favore delle plutocrazie che coinvolse direttamente Mussolini, allora presidente del Consiglio a capo di una coalizione di centro-destra, è collegato al delitto Matteotti, ed è documentato da diversi saggi. I più interessanti sono di Mauro Canali (Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997) e di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino (Il golpe inglese, Chiarelettere, 2011). Il 30 maggio 1924, pronunciò alla Camera parole di fuoco in contestazione dei risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile, richiedendo di invalidare l’elezione almeno di un gruppo di deputati – secondo le sue accuse, illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli perpetrati dagli squadristi. La richiesta venne respinta dall’assemblea con 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti. Nel 1926 si svolgerà a Chieti un processo farsa in cui il pubblico ministero Del Vasto, durante tutta la requisitoria, divide il capo di accusa in due momenti ben distinti. Il primo è l’ordine di sequestro, il secondo è l’uccisione. I due capi d’imputazione non vengono collegati, e quindi chi ha dato l’ordine del sequestro (Mussolini) non ha dato quello di uccidere; chi ha ucciso lo ha fatto involontariamente. La cosa ancora più farsesca è che a difendere gli esecutori fu incaricato l’avvocato Roberto Farinacci, ras di Cremona, esponente di spicco dell’ala più oltranzista e filonazista del fascismo e segretario nazionale del Pnf, che trasforma l’udienza in un processo politico all’antifascismo nostrano con una foga tale che il Duce, poco tempo dopo, dovrà togliergli la segreteria del partito. La magistratura sarà mite con gli imputati: il 24 marzo 1926, infatti, la Corte d’Assise riconosce gli squadristi Cesare Rossi e Giovanni Marinelli colpevoli dell’ordine di sequestro e Filippo Filippelli colpevole per avervi cooperato. Però, essendo i loro reati estinti per l’amnistia del 31 luglio 1925, verranno subito rimessi in libertà. I sequestratori Viola e Malacria sono assolti per non aver commesso il fatto; Volpi, Dumini e Poveromo invece sono condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni, che, sempre in virtù dell’amnistia, saranno ridotti a due mesi di prigione. Giustizia è fatta.
L’affare della Sinclair Oil Filippo Filippelli, giornalista e faccendiere fascista, anch’egli implicato nel caso Matteotti, capisce che bisogna pescare capitali in altri ambiti. Peccato che Gelasio Caetani, ambasciatore italiano a Washington, si fece portavoce di un’altra azienda statunitense, la Sinclair Oil, precedentemente sostenuta da alcuni dei principali gruppi finanziari di New York, come la banca di John Davison Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil, la quale, con quello che si può definire un colpo di mano, riesce a spuntare col neonato governo fascista – una coalizione di centro-destra composta dalle varie anime del liberalismo conservatore italiano, dai fascisti ai nazionalisti ai cattolici popolari – una convenzione a costi più alti dell’azienda inglese. Non saranno pochi fra i deputati dell’opposizione a chiedersi il perché, e la cosa insospettì l’Anglo-Iranian Oil Company. Nonostante questo il governo continuò le trattative, arrivando a una convenzione, fatta approvare a un Consiglio dei ministri poche settimane dopo le elezioni del 1924. La Sinclair Oil ottenne così l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti sul territorio italiano, come in Emilia e in Sicilia, e molti vantaggi per poter effettuare scavi in tutta la penisola, come una concessione di novant’anni e l’esenzione dalle imposte (4). In cambio di tangenti, la Sinclair avrebbe inoltre ottenuto di non permettere a un ente petrolifero statale – ergo, italiano – di intraprendere trivellazioni nel deserto libico, colonia italiana. Il governo italiano scelse come mediatori per trattare con la Sinclair dei politici del Pnf, degli imprenditori e dei diplomatici come, per esempio, i ministri dell’Economia nazionale Orso Mario Corbino e dei Lavori pubblici Gabriello Carnazza, che avevano dei conflitti d’interesse in quanto legati tra loro da imprese commerciali (molte delle quali, guarda caso, in Sicilia) e imprese con diversi gruppi finanziari ed aziendali statunitensi (tra cui la casa Morgan, uno dei finanziatori della Sinclair Oil). Mauro Canali inserisce, fra i vari mediatori, lo stesso giornalista Filippo Filippelli (fondatore del Corriere Italiano a cui fu intestato il noleggio dell’auto usata per il sequestro di Matteotti), legatissimo al fratello del Duce, Arnaldo Mussolini, e documenta che pochi giorni prima della stipula della convenzione questi avesse ricevuto la prima rata di una tangente pari a un milione di lire, a cui ne sarebbero dovute seguire altre dalla Società Italo-Americana pel Petrolio, filiale italiana della Standard Oil (5). Tutto questo, poco prima delle elezioni del 1924 – svoltesi con la legge elettorale Acerbo – nonostante l’immagine della Sinclair Oil fosse stata minata da uno scandalo molto grave che venne rilevato da moltissimi quotidiani di diversi Paesi, a eccezione della stampa italiana, che si stava avviando alla dittatura del Minculpop e delle veline di regime: l’impresa petrolifera era stata implicata in un caso di corruzione per ottenere il controllo di un pozzo di petrolio molto redditizio situato a Teapot Rock, nel Wyoming. L’inchiesta si concluse nel 1929 con la revoca della suddetta concessione e la condanna del senatore repubblicano Albert B. Fall, rappresentante del gabinetto di governo che aveva firmato la concessione (primo caso di una condanna di questo tipo) e di Harry Ford Sinclair, presidente della Sinclair Oil. A disturbare la faccenda entrò in gioco il governo britannico. Questi interpretò gli accordi fra il governo Mussolini e gli americani della Sinclair Oil come un attacco diretto ai propri interessi economici. Il segretario del Psu era di casa in Inghilterra. La tradizione riformista e ‘fabiana’ del laburismo inglese, basata sul sistema cooperativo, si adattava perfettamente a quella dei socialisti unitari italiani, espulsi dal Psi nel 1922 dalla corrente massimalista e filosovietica capitanata dal leader Serrati. Il Psu era vicino all’Indipendent labour party, al potere in Inghilterra, e Matteotti, nel bel mezzo dello scandalo Sinclair Oil e delle trattative col governo mussoliniano, effettuò il suo viaggio. Il Daily Herald, organo ufficiale dell’Indipendent labour party, sostenne sin dall’inizio che l’omicidio dell’onorevole Matteotti era direttamente legato al timore che questi, ritornato in Italia, denunciasse la corruzione dei vertici governativi alla Camera, attaccando anche Arnaldo Mussolini, destinatario di una tangente pari a 30 milioni di lire pagate dalla Sinclair. Il periodico English Life pubblicò un articolo postumo del defunto deputato in cui questi denunciava a chiare lettere per corruzione sia la compagnia petrolifera statunitense che il governo fascista. Gli accordi con la Sinclair, quindi, verranno cancellati dal governo italiano nel novembre 1924. Canali evidenzia un’altra situazione molto interessante e che fa riflettere: Velia Matteotti, moglie Dumini, Viola e Poveromo verranno condannati all’ergastolo (pena che verrà poi commutata in 30 anni di carcere, Dumini verrà amnistiato sei anni più tardi), agli altri sarà riconosciuto il non luogo a procedere a causa dell’amnistia disposta nel 1946. Un’altra possibile pista – legata a quella economico-affarista – coinvolgerebbe Vittorio Emanuele Ma i casi di corruzione non si limitano a questo. Alcuni però, preferiscono scagionare Mussolini, dando la colpa solo ai Savoia: prima del 1997, infatti, vi erano stati dei giornalisti che avevano fiutato la pista affaristica: sull’Avanti del 27 luglio 1985, Antonio Landolfi ne parlava in La Massoneria e il delitto Matteotti: un’altra verità, recensendo il libro di Matteo Matteotti Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, dove viene incolpata Casa Savoia, e il mensile Storia Illustrata, nel novembre dello stesso anno, dedicava ampio spazio all’argomento, pubblicando un’intervista all’esponente del Psdi dal titolo: Delitto Matteotti. Fu uno sporco affare di petrolio. Nell’intervista, rilasciata a Marcello Staglieno, giornalista-storico del Giornale di Montanelli transitato poi a Il Secolo d’Italia (organo del Msi), Matteo Matteotti afferma che nel 1924 i giornali parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere portata dal padre alla Camera, riferendosi in particolare a un dossier, contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, in cui era fatto riferimento, assieme alle questioni delle bische e dei petroli, all’implicazione della massoneria italiana, oltre che a una possibile affiliazione, non improbabile, di Matteotti. A riguardo, Staglieno cita un’intervista rilasciata da Gianfranco Fusco al quotidiano della Fiat nel 1978 dove si affermava che “nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia, duca d’Aosta raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla Rispettabile Loggia The Unicorn And The Lion. E di essere venuto casualmente a conoscenza del fatto che, in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil – la futura Bp – esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel registro degli azionisti senza sborsare una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a mantenere il più possibile ignorati (covered) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone dell’entroterra libico”. A questo aveva aggiunto: “Sempre sul piano delle ipotesi, ai primi di giugno a De Bono si sarebbe presentato un informatore, certo Thishwalder, con una notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier sulle collusioni fra il re e la Sinclair” (11). La stampa neofascista, ovviamente, ci andò a nozze, dato che ciò scagionava l’amato Duce, incolpando la monarchia e la massoneria (12).
Note e riferimenti bibliografici (1) Secondo Emilio Gentile il fascismo fu una via italiana al totalitarismo, “un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario, antiliberale e antimarxista, organizzato in un partito milizia, con una concezione totalitaria della politica e dello Stato, con un’ideologia attivistica e antiteoretica, a fondamento mitico, virilista e antiedonistica, sacralizzata come religione laica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno Stato corporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenza e di conquista, mirante alla creazione di nuovo ordine e di una nuova civiltà”. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, 2002, pp. IX, X. Sempre secondo Gentile il revisionismo storiografico moderato, inaugurato da Indro Montanelli col libro Buonuomo Mussolini (1947), intende “togliere al fascismo gli attributi che gli furono propri e che ne caratterizzarono l’individualità propria” dando una “rappresentazione alquanto indulgente, se non proprio benevola, dell’esperienza fascista: una vicenda più comica che tragica, una sorta di istrionica farsa di simulazione collettiva, recitata per venti anni dagli italiani”, definita dallo storico come “defascistizzazione retroattiva del fascismo”. Ibidem, p. VII |