Sul delitto Matteotti e le mazzette del Duce

L’affaire Sinclair Oil, corruzione e mazzette all’ombra dell’omicidio che ha segnato l’avvio della dittatura

giacomo-matteotti

Fra i vari temi portati avanti dalle forze politiche di stampo populista e neofascista nell’Europa martoriata dalla crisi e dall’austerity imposta dalla Troika neoliberista, vi è quello della lotta a oltranza alla corruzione, cavallo di Troia per una contestazione radicale della democrazia, puntellando le proprie ragioni a un bastone costruito su un falso mito: quello secondo cui il fascismo avrebbe mantenuto salda la sovranità nazionale degli Stati in cui esso dominava, grazie all’onestà dei propri dirigenti politici.

Secondo costoro, con la sconfitta delle forze militari dell’Asse, l’Europa, spartita fra Usa e Urss, divenne un burattino nelle mani di due sistemi (il bolscevismo e la democrazia plutocratica) dietro cui si celavano forze occulte come l’ebraismo e la massoneria. Sempre secondo costoro, i dittatori fascisti – dipinti come dei ‘padri della patria’ o come delle ‘sagge guide’ – erano personaggi incorruttibili che imponevano il loro ordine autoritario per il bene comune. Attenzione però, perché qui non i tratta di un’operazione revisionista portata avanti esclusivamente dalla destra radicale, ma anche da certi settori moderati dell’editoria e dell’editoria nostrana attraverso la diffusione di saggi storici, scritti da giornalisti, e quindi redatti con una sintassi molto più avvincente di certi mattoni accademici, caratterizzati dall’assenza o quasi delle note a piè di pagina e di una bibliografia. Mi riferisco ai libri di Giordano Bruno Guerri, Arrigo Petacco, Antonio Spinosa o ai truculenti romanzoni splatter alla Dario Argento, capaci di presentare il regime fascista in maniera edulcorata, come un autoritarismo alieno da ogni degenerazione totalitaria (una “defascistizzazione retroattiva del fascismo” [1]) e da ogni forma di corruzione.

Naturalmente questo è falso. Il regime fascista, come ogni tipo di regime, compreso quello democratico, è stato soggetto a forme di corruzione simili in tutto e per tutto a quelle che hanno caratterizzato la successiva Prima Repubblica, e quella vigente. Solo che, vista l’assenza di libertà d’informazione ed eliminando – per non disturbare il manovratore di turno e far passare l’idea che si potesse dormire con la porta aperta – dai quotidiani la cronaca nera, facendola rispuntare solo quando il ‘mariuolo’ risultava nel Casellario politico centrale alla voce antifascista o sovversivo, tali notizie non potevano trapelare.

Un caso eclatante di corruzione e di trasferimento di sovranità nazionale a favore delle plutocrazie che coinvolse direttamente Mussolini, allora presidente del Consiglio a capo di una coalizione di centro-destra, è collegato al delitto Matteotti, ed è documentato da diversi saggi. I più interessanti sono di Mauro Canali (Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997) e di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino (Il golpe inglese, Chiarelettere, 2011).
È il caso di addentrarci in un caso di serio revisionismo storico, da intendere non come contraffazione della verità, ma come revisione delle analisi in corso alla luce di nuove scoperte. Il deputato e segretario del Psu Giacomo Matteotti è passato alla storia per ciò che ha significato il suo assassinio.

Il 30 maggio 1924, pronunciò alla Camera parole di fuoco in contestazione dei risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile, richiedendo di invalidare l’elezione almeno di un gruppo di deputati – secondo le sue accuse, illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli perpetrati dagli squadristi. La richiesta venne respinta dall’assemblea con 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti.
Il 10 giugno Matteotti esce di casa da via Pisanelli n. 40 per recarsi alla biblioteca della Camera per ultimare il testo del discorso che vi terrà il giorno dopo, quando, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia viene raggiunto da un commando della Ceka fascista (antesignana dell’Ovra) capitanata da Amerigo Dumini, che lo carica con violenza su una Lancia Kappa noleggiata da Filippo Filippelli, direttore del quotidiano fascista Corriere Italiano, e parte a gran velocità verso Ponte Milvio e la periferia romana. In auto scoppia un violento alterco, e il fascista Giuseppe Viola accoltella Matteotti, che muore. Il corpo verrà seppellito a Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma. Verrà ritrovato il 12 agosto 1924 da un cantoniere che lavora lungo la via Flaminia.)
La vedova del deputato scriverà una lettera a Federzoni sul Corriere della Sera, ministro degli Interni, chiedendo che alle esequie non vi siano membri del Pnf e della Milizia, cioè le Camicie nere (2).

Nel 1926 si svolgerà a Chieti un processo farsa in cui il pubblico ministero Del Vasto, durante tutta la requisitoria, divide il capo di accusa in due momenti ben distinti. Il primo è l’ordine di sequestro, il secondo è l’uccisione. I due capi d’imputazione non vengono collegati, e quindi chi ha dato l’ordine del sequestro (Mussolini) non ha dato quello di uccidere; chi ha ucciso lo ha fatto involontariamente. La cosa ancora più farsesca è che a difendere gli esecutori fu incaricato l’avvocato Roberto Farinacci, ras di Cremona, esponente di spicco dell’ala più oltranzista e filonazista del fascismo e segretario nazionale del Pnf, che trasforma l’udienza in un processo politico all’antifascismo nostrano con una foga tale che il Duce, poco tempo dopo, dovrà togliergli la segreteria del partito.

La magistratura sarà mite con gli imputati: il 24 marzo 1926, infatti, la Corte d’Assise riconosce gli squadristi Cesare Rossi e Giovanni Marinelli colpevoli dell’ordine di sequestro e Filippo Filippelli colpevole per avervi cooperato. Però, essendo i loro reati estinti per l’amnistia del 31 luglio 1925, verranno subito rimessi in libertà. I sequestratori Viola e Malacria sono assolti per non aver commesso il fatto; Volpi, Dumini e Poveromo invece sono condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni, che, sempre in virtù dell’amnistia, saranno ridotti a due mesi di prigione. Giustizia è fatta.
Il regime superò questo momento critico, apprestandosi ad avviarsi verso il totalitarismo. Ma la domanda è: che c’entra tutto questo con una storia di tangenti? Quale era il vero messaggio che sarebbe trapelato dalle future dichiarazioni dell’esponete del Partito socialista unitario?

L’affare della Sinclair Oil
Nel 1921 l’Antipartito fascista – il Movimento dei fasci di combattimento nato a Milano in Piazza San Sepolcro nel 1919 – diventa partito. Un partito come quello fascista, che auspica la presa del potere, non poteva che archiviare l’iniziale fase populista, movimentista e trasversalista, e per farlo si struttura con un tesseramento, sedi, federazioni ecc., senza contare le squadracce, armate di tutto punto. Tutto questo ha una spesa. Uno dei mezzi per recuperare capitali – oltre al classico finanziamento da parte degli imprenditori e degli agrari – è il finanziamento illecito: diversi quadri del neonato Pnf si dedicano al traffico dei residuati bellici, attività che non coinvolge solo il fascismo. Quantità di armi cedute ufficialmente per rottamazione a finte cooperative di reduci, che, nella pratica, vengono ricollocate sulla piazza europea a prezzo di mercato con evidente margine di guadagno. Nel Pnf si distinguono Carlo Bazzi, direttore di Nuovo Paese, e uno dei protagonisti dell’affaire Matteotti, ossia Amerigo Dumini, arrestato per esportazione illegale d’armi al neonato Regno di Jugoslavia. Ma il business delle armi è per così dire un osso più che spolpato, dato che non è monopolio dei soli fascisti.

Filippo Filippelli, giornalista e faccendiere fascista, anch’egli implicato nel caso Matteotti, capisce che bisogna pescare capitali in altri ambiti.
Uno è quello dei grandi appalti, delle infrastrutture pubbliche, dei finanziamenti per grandi opere
e, in particolare, il commercio floridissimo del petrolio.
Nel 1922, l’anno in cui Mussolini forma il suo governo, l’80% del mercato petrolifero del Regno d’Italia era gestito dagli americani della Standard Oil tramite la Società Italo-Americana pel Petrolio (Siap), mentre il restante era fornito dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell, come riportano sia lo storico Mauro Canali che il giornalista ed ex dirigente dell’Eni Benito Li Vigni (3). Nel 1923 la Anglo-Iranian Oil Company, società petrolifera del governo britannico, decide di scalzarne una fetta con un’efficace concorrenza, peraltro gradita.

Peccato che Gelasio Caetani, ambasciatore italiano a Washington, si fece portavoce di un’altra azienda statunitense, la Sinclair Oil, precedentemente sostenuta da alcuni dei principali gruppi finanziari di New York, come la banca di John Davison Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil, la quale, con quello che si può definire un colpo di mano, riesce a spuntare col neonato governo fascista – una coalizione di centro-destra composta dalle varie anime del liberalismo conservatore italiano, dai fascisti ai nazionalisti ai cattolici popolari – una convenzione a costi più alti dell’azienda inglese. Non saranno pochi fra i deputati dell’opposizione a chiedersi il perché, e la cosa insospettì l’Anglo-Iranian Oil Company. Nonostante questo il governo continuò le trattative, arrivando a una convenzione, fatta approvare a un Consiglio dei ministri poche settimane dopo le elezioni del 1924. La Sinclair Oil ottenne così l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti sul territorio italiano, come in Emilia e in Sicilia, e molti vantaggi per poter effettuare scavi in tutta la penisola, come una concessione di novant’anni e l’esenzione dalle imposte (4). In cambio di tangenti, la Sinclair avrebbe inoltre ottenuto di non permettere a un ente petrolifero statale – ergo, italiano – di intraprendere trivellazioni nel deserto libico, colonia italiana.

Il governo italiano scelse come mediatori per trattare con la Sinclair dei politici del Pnf, degli imprenditori e dei diplomatici come, per esempio, i ministri dell’Economia nazionale Orso Mario Corbino e dei Lavori pubblici Gabriello Carnazza, che avevano dei conflitti d’interesse in quanto legati tra loro da imprese commerciali (molte delle quali, guarda caso, in Sicilia) e imprese con diversi gruppi finanziari ed aziendali statunitensi (tra cui la casa Morgan, uno dei finanziatori della Sinclair Oil).

Mauro Canali inserisce, fra i vari mediatori, lo stesso giornalista Filippo Filippelli (fondatore del Corriere Italiano a cui fu intestato il noleggio dell’auto usata per il sequestro di Matteotti), legatissimo al fratello del Duce, Arnaldo Mussolini, e documenta che pochi giorni prima della stipula della convenzione questi avesse ricevuto la prima rata di una tangente pari a un milione di lire, a cui ne sarebbero dovute seguire altre dalla Società Italo-Americana pel Petrolio, filiale italiana della Standard Oil (5). Tutto questo, poco prima delle elezioni del 1924 – svoltesi con la legge elettorale Acerbo – nonostante l’immagine della Sinclair Oil fosse stata minata da uno scandalo molto grave che venne rilevato da moltissimi quotidiani di diversi Paesi, a eccezione della stampa italiana, che si stava avviando alla dittatura del Minculpop e delle veline di regime: l’impresa petrolifera era stata implicata in un caso di corruzione per ottenere il controllo di un pozzo di petrolio molto redditizio situato a Teapot Rock, nel Wyoming. L’inchiesta si concluse nel 1929 con la revoca della suddetta concessione e la condanna del senatore repubblicano Albert B. Fall, rappresentante del gabinetto di governo che aveva firmato la concessione (primo caso di una condanna di questo tipo) e di Harry Ford Sinclair, presidente della Sinclair Oil.

A disturbare la faccenda entrò in gioco il governo britannico. Questi interpretò gli accordi fra il governo Mussolini e gli americani della Sinclair Oil come un attacco diretto ai propri interessi economici.
La stampa inglese, sia quella laburista che quella conservatrice o liberale, contestò energicamente la convenzione italo-americana (nonostante certe clausole, come la concessione di un vero e proprio regime di monopolio a favore degli americani della Sinclair Oil nell’intraprendere trivellazioni nel deserto della Libia, una colonia del Regno d’Italia, non fossero di pubblico dominio). Ed è qui che entra in gioco Giacomo Matteotti.

Il segretario del Psu era di casa in Inghilterra. La tradizione riformista e ‘fabiana’ del laburismo inglese, basata sul sistema cooperativo, si adattava perfettamente a quella dei socialisti unitari italiani, espulsi dal Psi nel 1922 dalla corrente massimalista e filosovietica capitanata dal leader Serrati.
Nel 1924, poco prima della sua morte, il deputato aveva fatto tradurre in inglese il suo libro Un anno di dominazione fascista col titolo The Fascists exposed. A Year of Fascist Domination, una cronaca delle violenze perpetrate dalle camicie nere e dalla polizia fascistizzata, col benestare del primo ministro Benito Mussolini, ai danni delle opposizioni e del movimento operaio (6).

Il Psu era vicino all’Indipendent labour party, al potere in Inghilterra, e Matteotti, nel bel mezzo dello scandalo Sinclair Oil e delle trattative col governo mussoliniano, effettuò il suo viaggio.
Canali documenta, fonti alla mano, che durante il viaggio Matteotti acquisì, probabilmente da fonti vicinissime o organiche ai laburisti, le prove della corruzione presente nell’affare Sinclair, o per lo meno avrebbe completato le informazioni già in suo possesso. Lo stesso Benito Li Vigni nota che la tesi secondo cui la fonte delle informazioni della corruzione del governo italiano fosse britannica è confermata da diversi articoli pubblicati negli Stati Uniti dopo la morte del deputato, e da un articolo apparso sul Popolo d’Italia, organo ufficiale del Pnf, nell’agosto del ‘24 (7).

Il Daily Herald, organo ufficiale dell’Indipendent labour party, sostenne sin dall’inizio che l’omicidio dell’onorevole Matteotti era direttamente legato al timore che questi, ritornato in Italia, denunciasse la corruzione dei vertici governativi alla Camera, attaccando anche Arnaldo Mussolini, destinatario di una tangente pari a 30 milioni di lire pagate dalla Sinclair. Il periodico English Life pubblicò un articolo postumo del defunto deputato in cui questi denunciava a chiare lettere per corruzione sia la compagnia petrolifera statunitense che il governo fascista. Gli accordi con la Sinclair, quindi, verranno cancellati dal governo italiano nel novembre 1924.

Canali evidenzia un’altra situazione molto interessante e che fa riflettere: Velia Matteotti, moglie
del deputato social-unitario, e i figli Giancarlo e Matteo (quest’ultimo sarà esponente del Psdi di Giuseppe Saragat, partito erede del Psu turatiano), non accuseranno mai il dittatore fascista e non faranno mai causa al regime per l’omicidio del parente, neanche quando il fascismo crollerà definitivamente nel 1945 e quando il neonato sistema postfascista imbastirà un processo per riaprire il caso nel 1947, in quanto il fascismo, secondo lo storico, ne aveva comprato il silenzio, risanando le finanze disastrate della vedova, quasi sull’orlo del fallimento.
Canali sostiene anche che il regime, a conferma del ‘ravvedimento’ della famiglia, impose a quest’ultima che uno dei figli – il futuro socialdemocratico Matteo – frequentasse la scuola pubblica. Nel 1947, in seguito al Decreto luogotenenziale n. 159 del 27 luglio 1944 (che rendeva potenzialmente nulle le condanne superiori ai tre anni avvenute in epoca fascista), la Corte d’Assise di Roma riaprì il processo nei confronti di Giunta, Rossi, Dumini, Viola, Poveromo, Malacria, Filippelli e Panzeri.

Dumini, Viola e Poveromo verranno condannati all’ergastolo (pena che verrà poi commutata in 30 anni di carcere, Dumini verrà amnistiato sei anni più tardi), agli altri sarà riconosciuto il non luogo a procedere a causa dell’amnistia disposta nel 1946.
All’epoca del processo, però, non emersero le ragioni economico-finanziarie dell’omicidio, permettendo che si consegnasse alla storia la morte di Matteotti come una punizione per aver denunciato alla Camera i soprusi e i brogli fascisti.

Un’altra possibile pista – legata a quella economico-affarista – coinvolgerebbe Vittorio Emanuele
III, del tutto indifferente nei confronti della firma della convenzione con la Sinclair Oil, e vicino agli ambienti mussoliniani durante il delitto e durante l’Aventino. Questo sembrerebbe confermato delle finanze di casa Savoia, disastrose anche per via della guerra appena conclusasi. Scrive Canali: “I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che mandante dell’omicidio fosse re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair. Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l’eliminazione del suo avversario politico” (8).
“Le camicie nere – prosegue lo storico – furono finanziate dalla Standard Oil” (9).

Ma i casi di corruzione non si limitano a questo.
La ricerca di Canali prende spunto da un’altra parte: il giornalista Ray Moseley, corrispondente da Londra del Chicago Tribune, in un suo libro su Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del Duce, scrive: “Alcuni documenti conservati nell’archivio nazionale degli Stati Uniti hanno rivelato che Galeazzo Ciano aveva nascosto milioni di pesos in Argentina e, assieme a Mussolini, aveva depositato segretamente altri fondi in Svizzera” (10). Il Duce, sostengono fonti vicine all’intelligence americana – un plico di carte dal titolo Flight of Italian Capital (Mussolini), fatte pervenire a Gennaro De Stefano, giornalista di Oggi – costruì una fortuna all’estero che non fu utilizzata né da lui né dai suoi discendenti. Il mito neo/postfascista di Mussolini fucilato a Dongo dai partigiani e morto senza un soldo è una falsità, buona per aggregare una comunità militante e nostalgica, ma inservibile da un punto di vista storiografico.

Alcuni però, preferiscono scagionare Mussolini, dando la colpa solo ai Savoia: prima del 1997, infatti, vi erano stati dei giornalisti che avevano fiutato la pista affaristica: sull’Avanti del 27 luglio 1985, Antonio Landolfi ne parlava in La Massoneria e il delitto Matteotti: un’altra verità, recensendo il libro di Matteo Matteotti Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, dove viene incolpata Casa Savoia, e il mensile Storia Illustrata, nel novembre dello stesso anno, dedicava ampio spazio all’argomento, pubblicando un’intervista all’esponente del Psdi dal titolo: Delitto Matteotti. Fu uno sporco affare di petrolio. Nell’intervista, rilasciata a Marcello Staglieno, giornalista-storico del Giornale di Montanelli transitato poi a Il Secolo d’Italia (organo del Msi), Matteo Matteotti afferma che nel 1924 i giornali parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere portata dal padre alla Camera, riferendosi in particolare a un dossier, contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, in cui era fatto riferimento, assieme alle questioni delle bische e dei petroli, all’implicazione della massoneria italiana, oltre che a una possibile affiliazione, non improbabile, di Matteotti.

A riguardo, Staglieno cita un’intervista rilasciata da Gianfranco Fusco al quotidiano della Fiat nel 1978 dove si affermava che “nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia, duca d’Aosta raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu ricevuto, come massone d’alto grado, dalla Rispettabile Loggia The Unicorn And The Lion. E di essere venuto casualmente a conoscenza del fatto che, in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil – la futura Bp – esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel registro degli azionisti senza sborsare una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a mantenere il più possibile ignorati (covered) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone dell’entroterra libico”. A questo aveva aggiunto: “Sempre sul piano delle ipotesi, ai primi di giugno a De Bono si sarebbe presentato un informatore, certo Thishwalder, con una notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier sulle collusioni fra il re e la Sinclair” (11). La stampa neofascista, ovviamente, ci andò a nozze, dato che ciò scagionava l’amato Duce, incolpando la monarchia e la massoneria (12).

 di Matteo Luca Andriola

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Note e riferimenti bibliografici

(1) Secondo Emilio Gentile il fascismo fu una via italiana al totalitarismo, “un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario, antiliberale e antimarxista, organizzato in un partito milizia, con una concezione totalitaria della politica e dello Stato, con un’ideologia attivistica e antiteoretica, a fondamento mitico, virilista e antiedonistica, sacralizzata come religione laica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno Stato corporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenza e di conquista, mirante alla creazione di nuovo ordine e di una nuova civiltà”. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, 2002, pp. IX, X. Sempre secondo Gentile il revisionismo storiografico moderato, inaugurato da Indro Montanelli col libro Buonuomo Mussolini (1947), intende “togliere al fascismo gli attributi che gli furono propri e che ne caratterizzarono l’individualità propria” dando una “rappresentazione alquanto indulgente, se non proprio benevola, dell’esperienza fascista: una vicenda più comica che tragica, una sorta di istrionica farsa di simulazione collettiva, recitata per venti anni dagli italiani”, definita dallo storico come “defascistizzazione retroattiva del fascismo”. Ibidem, p. VII
(2) “Chiedo che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna Camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio, né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Voglio viaggiare come semplice cittadina, che compie il suo dovere per poter esigere i suoi diritti; indi, nessuna vettura-salon, nessun scompartimento riservato, nessuna agevolazione o privilegio; ma nessuna disposizione per modificare il percorso del treno quale risulta dall’orario di dominio pubblico. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d’ordine, sia esso affidato solamente a soldati d’Italia”. Lettera di Velia Matteotti, pubblicata sul Corriere della Sera, 20 agosto 1924
(3) B. Li Vigni, Le guerre del petrolio, Editori Riuniti, 2004, pp. 173 e ss e pp. 133 e ss. Anche Li Vigni collega la morte di Matteotti alla questione petrolifera
(4) Cfr. R.D.L. n. 677, 4 maggio 1924
(5) M. Canali, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997
(6) G. Matteotti, Un anno di dominazione fascista, Tipografia italiana, 1923; ed. inglese, The fascisti exposed. A Year of Fascist Domination, Indipendent labour party Publication department, 1924
(7) Cfr. La grande piovra, n. f., in Il Popolo d’Italia, 10 agosto 1924. Sul quotidiano però si afferma che i possibili mandanti dell’omicidio potevano essere gli stessi inglesi: “Non mi meraviglierei – scrive Mussolini sul suo giornale – se dovesse risultare domani che la mano stessa che forniva a Londra all’on. Matteotti i documenti mortali, contemporaneamente armasse i sicari che sul Matteotti dovevano compiere il delitto scellerato”
(8) M. Canali, Matteotti fu ucciso perché scoprì le mazzette di Mussolini, intervista rilasciata a G. De Stefano, in Oggi, n. 51, 2000
(9) La tesi di Mussolini finanziato dal capitalismo inglese è senz’altro provata da fonti d’archivio, anche se risulta indigesta all’estrema destra moderna, che vede nel fascismo una rivoluzione social-nazionale e non la reazione del ceto medio antisocialista. Cfr. M. Barozzi, I finanziamenti britannici nel 1917 a Mussolini, in Rinascita-Quotidiano di sinistra nazionale, 20 ottobre 2009. Secondo il fascista Barozzi – esponente della Federazione nazionale combattenti della Rsi (FNCRSI) – “quel delitto ebbe una triplice finalità: 1. eliminare un uomo (Matteotti) in procinto di denunziare una serie di scandali che avrebbero coinvolto vari settori dell’industria e della finanza, e soprattutto casa Savoia; 2. sbarazzarsi di un capo di governo (Mussolini) che con il suo dirigismo nella prassi di governo, non consentiva ai grandi gruppi speculativi, alcuni sorti anche all’ombra della presidenza del Consiglio, di trafficare in ogni campo. Gruppi finanziari e speculativi, a cominciare dalla Commerciale di Toeplitz, che pur avevano investito forte sul fascismo e nella marcia su Roma; 3. far saltare certi progetti, che già nel 1923 si delineavano nella mente di Mussolini, circa una apertura ai socialisti e ai confederali e verso la Chiesa, prospettiva quest’ultima alquanto temuta dalla massoneria”. Id., Il golpe inglese. Oltre due secoli di ingerenza britannica nel nostro Paese, ivi, 16 settembre 2011
(10) R. Moseley, Ciano, l’ombra di Mussolini, p. 205, cit. in Oggi , n. 51, 2000
(11) M. Matteotti, Delitto Matteotti. Fu uno sporco affare di petrolio, intervista rilasciata a M. Staglieno, in Storia Illustrata, novembre 1985
(12) Il settimanale di destra Il Candido, diretto dal senatore missino Giorgio Pisanò, dedica al caso Matteotti due pagine nel gennaio del 1986. “La massoneria – è la tesi degli articoli – fa uccidere Matteotti per addossare la responsabilità a Mussolini e conseguentemente costringerlo alle dimissioni”. “Il gruppo che decretò la morte di Matteotti era legato a grossi industriali, si trattava insomma di un gruppo di potere che poteva contare, fra l’altro, sull’attivo concorso della massoneria di Palazzo Giustiniani e su uomini politici del peso di Filippo Turati e di Giovanni Amendola”. Insomma, socialisti antifascisti che farebbero ammazzare un socialista che smaschera e denuncia Mussolini. Il Candido citava come prova frasi di Mussolini riguardo al rapimento e al delitto, descritti come “una bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla” (parlando con la sorella Edvige) in chiaro riferimento ad alcuni suoi collaboratori (De Bono, Marinelli, Finzi e Rossi, quasi tutti legati alla massoneria). In un’altra occasione ebbe a definire il delitto “un cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare”. Nel discorso alla Camera del 13 giugno Mussolini aveva gridato: “Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione”. Cfr. L’assassinio dell’esponente socialista fu deciso in un ristretto ambiente affaristico e massonico milanese, in Il Candido, 30 gennaio 1986

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